Il 10 febbraio ricorre il Giorno del ricordo, una solennità civile nazionale italiana istituita per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
«Bruttura umana e vergogna di una nazione civile, perché campo profughi significa promiscuità, vita antigenica, abitudine all’ozio, vita antisociale, rovina delle donne e dei ragazzi, demoralizzazione completa e conseguente annullamento della personalità umana». Sono le parole pronunciante nel 1951 nell’Assemblea degli esuli Giuliani residenti nella provincia di Caserta, una delle tante province italiane dove furono disperse – in 109 campi profughi – le decine di migliaia di istriani, fiumani e dalmati cacciati o costretti alla fuga dalla loro terra di origine.
Nella provincia di Caserta, l’anno successivo, si registravano i due più grandi campi della regione, a Capua e ad Aversa, con quasi 1200 profughi. Nel resto della Campania, invece, vi erano campi profughi a Napoli (Bagnoli), Salerno e Pagani, Avellino.
Dopo l’8 settembre 1943 i partigiani jugoslavi diedero inizio alla persecuzione degli italiani in Dalmazia e in Istria non solo con l’uccisione di gerarchi fascisti, ma di qualsiasi rappresentante dello Stato italiano come carabinieri, segretari comunali, farmacisti, maestri elementari e persino sacerdoti. Fu in quelle settimane che si diede inizio alla tragedia delle Foibe la cui vittima più nota è Norma Cossetto, una studentessa universitaria ventitreenne la cui storia è descritta nel film Red Land (Rosso Istria) di Maximiliano Hernando Bruno, raro caso di rappresentazione cinematografica insieme alla miniserie Il cuore nel pozzo del 2005.
Le foibe – cavità carsiche profonde persino centinaia di metri – divennero le fosse comuni in cui furono buttati – talvolta ancora vivi – i nemici italiani della dittatura comunista di Tito. Si calcola che furono 10.000 gli italiani infoibati, ammazzati o scomparsi.
Accanto a questa tragedia – che certamente è la più grave –, tuttavia ne va ricordata un’altra, ancora ignorata: quella dell’esodo di massa della popolazione italiana della Venezia Giulia, dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia. Con l’intenzione di annettere questi territori alla Jugoslavia, infatti, le truppe dei partigiani comunisti del Maresciallo Tito il 1° maggio 1945 – quindi a guerra finita – diedero inizio all’invasione di Pola, Fiume, Gorizia e Trieste, trovando complicità ed appoggio dei comunisti italiani dei quali emblematico fu l’appello di Palmiro Togliatti: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è di accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con esse nel modo più assoluto».
La pulizia etnica e politica, con le sue motivazioni ideologiche, etniche e sociali, rispondeva all’obiettivo della creazione di uno stato panslavista fondato su di un nazionalismo esasperato e sulla dittatura comunista. Per realizzare questo piano occorreva che gli Slavi diventassero maggioranza e che fossero eliminati non solo gli esponenti del fascismo e dello Stato italiano, ma anche della borghesia e del capitalismo, e infine di tutti gli italiani. Così, sotto la regia del Partito comunista jugoslavo e dell’OZNA – la polizia segreta jugoslava – si procedette ad arresti, deportazioni, infoibamenti nei confronti non solo di italiani, ma anche di sloveni, croati e serbi anticomunisti e perciò ritenuti “nemici del popolo”.
Un ulteriore elemento, non secondario, del comunismo jugoslavo fu la sua ostilità alla religione. Non solo furono depredare le chiese, ma molte di queste furono trasformate in stalle, magazzini e prigioni e l’attività liturgica fu spesso non solo ostacolata, ma persino impedita. Furono perseguitati fedeli e sacerdoti, e di quest’ultimi si contano almeno 37 vittime. Due sono stati i sacerdoti certamente uccisi in odium fidei e beatificati da Benedetto XVI: don Francesco Bonifacio e don Miroslav Bulesic. Ma veramente macabro fu il ritrovamento, nella cava di bauxite di Lindaro, del corpo di don Angelo Tarticchio ucciso dopo l’invasione titina dell’Istria all’indomani dell’8 settembre 1943: aveva una corona di filo spinato infissa sul capo ed i genitali tagliati in bocca.
Dopo 40 giorni infernali di occupazione comunista, il 12 giugno 1945 Trieste fu realmente liberata dalle truppe anglo-americane e lo stesso Winston Churchill, primo ministro inglese che aveva fornito grandi aiuti militari a Tito, scrivendo a Stalin riconobbe che «Grandi crudeltà sono state commesse in quella zona dagli slavi contro gli italiani, specialmente a Trieste e a Fiume. Le pretese aggressive del maresciallo Tito devono essere stroncate».
Fu soltanto con il Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) che l’Italia dovette cedere alla Jugoslavia quasi tutta l’Istria con le città di Pola e Fiume, mentre veniva costituito il Territorio Libero di Trieste come stato cuscinetto suddiviso in una zona A, con la città di Trieste sotto l’amministrazione militare anglo-americana, ed una zona B, con Capodistria sotto quella jugoslava. Il passaggio sotto uno stato straniero retto da una dittatura comunista, insieme con le persecuzioni del razzismo slavista, imposero un esodo senza precedenti in cui decine di migliaia di italiani dovettero abbandonare la propria terra e i propri beni per rifugiarsi, in una vera e propria diaspora, nelle altre regioni italiane. Su oltre mezzo milione di abitanti, 350.000 italiani andarono via in un lungo esodo trascinatosi fino agli anni ’60. Ma anche 50.000 tra sloveni e croati fuggirono per non sottomettersi alla dittatura comunista.
Coloro che avevano ottenuto il permesso di partire, dopo il riconoscimento dell’opzione per la cittadinanza italiana, poterono portare in Italia soltanto una valigia con 5 kg di indumenti e 5.000 lire, spesso comunque sequestrati prima della frontiera dall’Ozna. Ma i profughi italiani non trovarono sempre un’accoglienza dignitosa nemmeno in Italia dove talvolta si registrarono episodi di respingimenti dei profughi da parte delle autorità italiane. Ancora poco noto è l’episodio del cosiddetto Treno della vergogna, un convoglio di esuli che doveva fare scalo a Bologna dove la Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana aveva preparato pasti caldi soprattutto per bambini ed anziani. Vari ferrovieri sindacalisti della CGIL ed iscritti al PCI minacciarono uno sciopero per bloccare la stazione, mentre altri militanti comunisti presero a sassate il treno gettando via le vettovaglie e versando il latte destinato ai bambini sulle rotaie.
Del resto, in quegli anni Togliatti era stato Ministro della giustizia e secondo la vulgata del suo partito le foibe erano solo frutto di propaganda, l’esodo era favorito dai reazionari, i profughi erano ex fascisti che rifiutavano il regime “democratico” di Tito ed avevano paura della giustizia popolare e democratica. Era, pertanto, opportuno scoraggiare le partenze dall’Istria e disperdere i profughi perché riuniti in grosse comunità avrebbero costituito un pericolo. I profughi furono, perciò, rinchiusi in campi circondati da fili spinato, con coprifuoco e guardia armata. Si trattò, comunque, di fatti nei quali la solidarietà nazionale disertò.
Il Memorandum d’intesa del 1954 sancì, poi, il passaggio all’amministrazione civile italiana della zona A, e quello all’amministrazione civile jugoslava della zona B – con un ulteriore esodo di italiani – sulla quale, con il Trattato di Osimo del 1975, l’Italia rinunciò definitivamente alla sua sovranità in favore della Jugoslavia. Infine, con l’Accordo di Roma del 1983 la Jugoslavia acquisì i beni espropriati agli esuli giuliano-dalmati in cambio di 110 milioni di dollari da versare, a titolo di indennizzo, al governo italiano in 13 rate. Di queste ne furono pagate soltanto due prima della dissoluzione della Jugoslavia, mentre oggi la Slovenia e la Croazia devono ancora versare il saldo.
Soltanto nel 2004 fu promulgata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi una legge che istituì il Giorno del ricordo «al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, così si è espresso il 10 febbraio dell’anno scorso a Montecitorio: «I crimini contro l’umanità scatenati in quel conflitto non si esaurirono con la liberazione dal nazifascismo, ma proseguirono nella persecuzione e nelle violenze, perpetrate da un altro regime autoritario, quello comunista».
L’esodo dei Giuliano-Dalmati, in conclusione, fu un vero e proprio plebiscito di libertà, oltre che di italianità, perché quegli italiani scelsero di essere profughi in una Italia sconfitta – e i cui discendenti vivono ancora a Caserta – piuttosto che rimanere nella propria terra annessa dalla Jugoslavia comunista, in cui non avrebbero potuto esercitare i diritti fondamentali di ogni uomo: il diritto alla pratica della propria fede religiosa, il diritto al mantenimento della propria identità nazionale, il diritto alla libertà individuale, alla proprietà, al lavoro e all’impresa, e spesso il diritto alla vita.
Bibliografia
- Istria, Fiume e Dalmazia, le terre del grande esodo. Una storia italiana, a cura di Vittorio Giorgi, Caserta 2010;
- Roberto Menia, 10 febbraio. Dalle foibe all’esodo, Roma 2020;
- Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Milano 2002.
Perché la citazione è importante
Abbiamo bisogno del tuo sostegno, che può essere fatto con pochi clic. Se decidi di utilizzare i contenuti del nostro sito web non dimenticare di citare la fonte, indicando il link del nostro articolo. Questo valorizzerà il nostro lavoro! Per maggiore supporto non esitare a contattarci.