C’era una volta, incastonata in una terra denominata Sannio, un paese considerato da chiunque vi fosse passato una perla rara. Il suo nome racchiude due popoli rimasti nella storia: Sant’Agata, voluto in onore di una grande santa dai longobardi Radoaldo e Grimoaldo; e de’ Goti dalla famiglia normanna De- Goth.
In questo lembo di terra, abbracciato da montagne, fertili e verdi campi e acqua limpidissima, dove il cibo e le vigne da sempre crescono in abbondanza, si affacciò durante il secolo XVIII un uomo che a quel paese riuscì a donare ulteriore lustro. Apparteneva ad un’antica e nobile famiglia, i De Liguoro, che gli diede non solo natali ricchissimi ma anche la possibilità di diventare professore di diritto in giovanissima età e protagonista del foro napoletano poco più che ventenne. Per lui una carriera di avvocato e cavaliere era poco più che scontata.
Il destino, o il Signore, a seconda di chi creda cosa, – tuttavia – non aveva questi programmi, così sulla soglia dei 30 anni fu ordinato sacerdote ed il suo nome Alfonso Maria de’ Liguori divenne presto celebre, non tanto per le sue cause in tribunale quanto per i suoi nobili propositi.
Prima di approdare in questa terra del Sannio, riuscì a distinguersi per la sua vicinanza alle persone più povere e indigenti, ottenendo ammirevoli risultati: nei quartieri più miseri della città di Napoli si moltiplicarono gruppi di persone che, alla sera, si riunivano nelle case private e nelle botteghe, per pregare e per meditare la Parola di Dio, sotto la guida di alcuni catechisti formati sotto la sua guida.
Continuando a studiare e a riflettere sui misteri delle fede – ricordiamo la sua celebre Theologia Moralis – approdò poi nell’antico Sannio ormai anziano, non prima di aver composto un canto entrato subito nel cuore di tanti fedeli: un canto religioso Quanno nascette Ninno (Tu scendi dalle stelle), all’epoca molto inusuale perché scritta in dialetto, o meglio in lingua napoletana. Nel 1762, infatti, giunse in qualità di vescovo a Sant’Agata de’ Goti.
Qui fu inviato un po’ di controvoglia, ma la sensazione durò poco e presto anche Sant’Agata lo conquistò. In realtà anche quest’uomo riuscì a guadagnarsi l’ammirazione dei suoi abitanti, non prima di aver combattuto strenue battaglie. Sant’Agata, all’inizio del suo trasferimento, fu definita da lui stesso «un postribolo a cielo aperto» per l’altissimo numero di prostitute e di decadenza morale, per l’uso frequentissimo di bestemmie, e in definitiva per una popolazione priva di ogni morale. Tutti mali a cui fece una spietatissima guerra, una guerra morale ovviamente. Consigliò ai sacerdoti la confessione come strumento dolce, costante, e non come strumento punitivo e coercitivo; la diocesi venne profondamente riformata e la sua opera di moral suasion sulla popolazione non fu mai impositiva. Si prodigò, oltretutto, per aiutare le famiglie che vivevano nell’indigenza più assoluta ma, ovviamente, non si fermò qui.
Come un novello supereroe in abiti talari riuscì a dimezzare i privilegi concessi nei secoli a famiglie prepotenti, con la stessa foga di quando da giovanissimo rimase colpito e disgustato dalla corruzione dei tribunali di Napoli.
Riaprì i monasteri femminili, fondò associazioni e opere caritatevoli ma il miracolo terreno sicuramente tra i più famosi della storia del paese sannita avvenne durante la carestia del 1764. Il nostro vescovo eroe aveva, in un certo qual modo, previsto con acuta intelligenza l’incedere veloce della carestia. Dispose, così, che il palazzo episcopale venisse riempito di cereali e legumi, provviste che tornarono utilissime a fine anno quando di pane non ce n’era più e al palazzo iniziarono a presentarsi 500 persone al giorno. Insomma, fece quanto di meglio per limitare le sofferenze delle genti sannite, vendendo anche la propria carrozza, l’anello vescovile e la croce pettorale. La sua fama era ormai vastissima e il paesino definitivamente conquistato.
La perla del Sannio con lui divenne un pezzo di Paradiso, e tutti vissero – nei limiti – felici e contenti.
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