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Intervista allo storico Olindo Isernia

  • Storia

Con questa intervista si è voluto dare riconoscimento al prof. Olindo Isernia per aver condotto, più di tutti gli altri storici, studi su periodi inesplorati della storia casertana, con metodo scientifico ed oggettività, senza che trasparisse mai la propria opinione. Dalle insorgenze popolari al brigantaggio, dai prefetti del Regno d’Italia alle amministrazioni comunali di Caserta. Questi sono i principali temi che dal 1978 ad oggi il prof. Isernia ha affrontato lasciando alla provincia di Caserta pagine preziosissime di ricerca storica.

Professore quando e dove è nato?
«Sono nato il 26 luglio 1947, nel giorno di Sant’Anna, a Caserta, da genitori casertani, in via Colombo al secondo piano del palazzo abbattuto dove oggi c’è la pasticceria Chirico. Era della famiglia Di Biase».

Che studi ha fatto?
«Ho fatto le scuole elementari dalle suore di Sant’Antida. Da casa mia mi vedevano nel loro cortile mentre facevamo ricreazione. Per le scuole medie in genere la borghesia casertana iscriveva i figli al Giannone, mentre io ho frequentato la Vanvitelli che all’epoca era ubicata nel Palazzo reale con accesso dalla Flora. Per arrivare alle aule era una scalata interminabile, mentre per andar via era una corsa sfrenata, da incoscienti, ci si poteva far male seriamente. L’accesso all’ascensore era riservato alle donne e agli insegnanti. In genere chi andava alla Vanvitelli non proseguiva al liceo classico, ma al contrario andai al Giannone nella sezione A, sotto il preside Fava, e il mio primo docente fu il prof. Vanella.
Successivamente mi iscrissi all’università, anche se ero molto indeciso tra Medicina e Lettere. I miei genitori mi consigliarono quest’ultima e così mi iscrissi all’indirizzo storico ma non avevo alcuna intenzione di cominciare a fare ricerca storica, quanto piuttosto di insegnare. Fu così che, una volta laureato, ebbi l’incarico in una scuola media di Busto Arsizio, ma il primo anno risiedevo a Varese. Questa era una città molto piovosa ma non nebbiosa. Una rarità. Quando la mattina partivo col treno, dopo tre o quattro stazioni bruscamente calava un muro di nebbia. Vi insegnai due anni e poi chiesi il trasferimento a Caserta e lo ebbi con ritardo, a novembre, perché in quell’anno ci fu il colera – eravamo nel 1973 – che ritardò i lavori in provveditorato. Avevo 13 ore di cattedra a Roccamonfina e 4 ore di doposcuola ad Ailano. Attraversavo villaggi sperduti dove c’erano ancora donne che lavavano i panni nei lavatoi pubblici. Scene da Ottocento. Ho insegnato, poi, a Macerata Campania, Capodrise, Santa Maria a Vico, Cervino ed Arienzo. Ebbi, infine, l’abilitazione alle scuole superiori. La prima è stata a Santa Maria a Vico abbinata al Geometra Buonarroti di Caserta con il preside Scaravilli. Poi da lì al Cesare Pavese in via Acquaviva. Alla fine chiesi il trasferimento all’istituto Terra di Lavoro dove ho insegnato per 12 anni e sono andato in pensione a soli 55 anni».

Come si è trovato nel nord Italia?
«All’epoca, agli inizi degli anni ’70, non c’erano pregiudizi. Varese era una città ricca e si viveva bene e si mangiava bene. I rapporti con i settentrionali non erano certamente ottimi, penso anche per colpa dei meridionali. Qualche volta si vedevano certe scene sui treni quando salivano gruppi di 7, 8, 10 persone che facevano fracasso. Tutte cose che ai settentrionali dava giustamente fastidio. Personalmente non ho mai avuto alcun problema, dipendeva molto anche dal livello. Esisteva, però, una forma di razzismo. Su La Prealpina, che era il giornale locale di Varese, si pubblicavano avvisi di affitto case “escluso i meridionali”. Rispetto a molte zone nostre, gli studenti però erano rispettosi e le scuole ben organizzate.
In una scuola a Capodrise, invece, le aule si trovavano in un palazzo privato dove gli studenti durante l’ora di ricreazione andavano nel cortile e mangiavano una merenda. Al termine arrivavano delle galline a razzolare le briciole. Certamente l’ambiente non era ottimo perché non dipendeva solo dall’ambito familiare. Passavano, infatti, dalle loro case in un ambiente ancora più degradato com’erano certe scuole di allora, molto raffazzonate. Nella provincia di Caserta, soprattutto nell’Alto casertano, alcune aule erano, addirittura, anche nelle stalle e questo avveniva perché la riforma della scuola media unificata fu promulgata all’improvviso, come al solito, senza il supporto di tutte le strutture. Ecco perché si dovettero adattare a scuola edifici vecchi e cadenti i cui proprietari correvano a dare in affitto perché non sapevano cosa farsene di quei ruderi. Trovavano comodo affittarlo alle scuole per avere una mensilità sicura. Nel Settentrione i bidelli dovevano indossare un camice nero ed erano persone educatissime e rispettose. Al sud, invece, ho trovato l’eccezione ma non la regola».

Com’è nata la sua passione per la storia?
«È nata quando mi hanno trascinato nell’Archivio di Stato di Caserta. In realtà, è proprio a Capodrise che ho incontrato Carmine Cimmino, uno storico di grande valore che meritava, forse, più di quello che ha avuto. Da poco aveva scritto Democrazia e socialismo in Terra di Lavoro nell’età liberale ed avendo interesse per la storia mi feci dare il libro. Parlando e discutendo con lui, un po’ alla volta mi ha invogliato a cominciare questa esperienza. Ricordo che era nel periodo delle festività natalizie che andai con Cimmino per la prima volta in Archivio. La prima ricerca che feci e il primo saggio che pubblicai sulla Rivista Storica di Terra di Lavoro, fondata proprio da Cimmino, riguardava l’insurrezione di Roccaguglielma e San Pietro in Curolis che oggi, unificati, si chiamano Esperia. Descrissi l’insorgenza provocata dall’arrivo delle truppe borboniche nel mese di settembre 1860 prima ancora della battaglia del Volturno. In un periodo, cioè, di grosse agitazioni di carattere politico e militare che si verificarono in Terra di Lavoro. Volli cominciare a studiare quel periodo. Dal tema delle insurrezioni mi sono legato, poi, al fenomeno del brigantaggio cercando di scendere più in profondità negli avvenimenti locali attraverso lo studio più da vicino delle varie bande, del loro modo di operare, di disporsi, di sfuggire alle forze dell’ordine, di cambiare continuamente la loro dimora per non essere intercettati».

A cosa serve la storia?
«Se non si conoscono bene le vicende passate non si capisce il presente, dal momento che i fatti che si svolgono, ciò che avviene prima e dopo, non sono svincolati fra di loro. Spesso un fatto successivo può essere la conseguenza di fatti anteriori. Anzi frequentemente avviene questo. Conoscere il passato significa poter spiegare meglio ciò che avviene nel presente e anche poter prevedere quello che potrebbe avvenire da una situazione che si viene a determinare oggi. Penso che la storia sia la disciplina più importante che ci sia anche perché si fa storia di tutte le discipline: storia della medicina, storia della scienza, storia della chimica ecc. Si mettono insieme quelle che sono le esperienze umane. La storia è la somma delle esperienze umane. Queste esperienze, però, spesso non insegnano niente. La storia dovrebbe servire da deterrente, per evitare le guerre per esempio. E poi la storia è piacevole: quanti film storici non si sarebbero fatti senza i libri di storia».

Ha un pensatore e uno storico di riferimento?
«Quelli che ho avuto all’università. Un mio insegnante è stato Alfonso Scirocco. Il mio correlatore alla tesi di laurea è stato Pasquale Villani. Ancora, Federico Del Tredici professore di storia medievale, il prof. Guido D’Agostino che è stato un attivo operatore culturale, Paolo De Marco.

Che storia ha avuto la città di Caserta?
«Nei momenti di passaggio, come dalla monarchia borbonica a quella sabauda, i grossi centri della provincia con una storia molto più antica di quella di Caserta – si pensi a Capua e Santa Maria Capua Vetere – cercarono di inserirsi nel discorso del capoluogo. Ci fu un tentativo, infatti, e Caserta dovette difendersi. Aversa è ricca di monumenti, Santa Maria ha il suo bellissimo anfiteatro, anche Capua è una bella città soprattutto per le strutture ecclesiastiche, rispetto a Caserta hanno tutte una storia più antica ma questo non significa che dovevano per forza diventare loro capoluogo. La fortuna di Caserta è stata che i Borbone volevano una via di fuga da Napoli. Ho studiato le amministrazioni di Caserta dal 1891 al 1920 ed ho constatato che vi era una situazione di instabilità continua. Cadeva la giunta, si scioglievano i consigli e arrivavano i commissari prefettizi e regi. Non c’era una continuità amministrativa. Continuamente interventi di controllo mandati dalla prefettura. Per esempio esiste un’inchiesta approfondita con una relazione analitica in cui un commissario dettagliava tutte le cose che non funzionavano nel comune di Caserta. Perché si era lasciata troppa mano libera al segretario comunale. Non era nulla in regola».

Questo la dice lunga sulla classe dirigente locale dell’epoca?
«Esattamente. Anche questa ha frenato lo sviluppo. Caserta non ebbe acqua potabile fino a quando non arrivò un commissario prefettizio il quale fece un piano per realizzare un acquedotto in una città che non aveva acqua potabile e che versava in una situazione igienica spaventosa. Sull’arretratezza del Mezzogiorno molto ha contribuito il non buon governo degli enti locali e del personale. Un caso fra tanti è quello del consiglio di fedelissimi di Alfonso Ruggiero. Come uomo di cultura nulla da dire, ma per quanto riguarda la politica anche lui era coinvolto nelle situazioni che si creano in politica inevitabilmente, ma era un uomo onesto».

Ha un periodo storico che preferisce?
«Non ho mai condotto studi secondo preferenze. Chissà se un giorno si arriverà alla compilazione di una storia di Terra di Lavoro e della provincia di Caserta per la seconda parte in maniera completa. Ci sono anche pagine belle della storia di Caserta come per esempio il periodo della Prima guerra mondiale per le iniziative di sostegno che vennero dalla città a favore dei soldati che andarono a combattere, per le iniziative di raccolta di fondi, di assistenza ai giovani scolari, ai bimbi che non frequentavano più la scuola. Addirittura c’è stato il caso particolare di un direttore della scuola elementare, Ciro Pagliuca. A scuola c’era un laboratorio, si preparavano maglie che si inviavano al fronte, e lavorava anche lui. Sono interessanti anche gli anni post bellici della Seconda guerra mondiale. Anche la giunta milazziana nel 1959».

Quali periodi non sono stati ancora studiati approfonditamente?
«Un periodo vuoto è quello che riguarda il Decennio francese. Da alcuni documenti emergono alcune corrispondenze del vescovo Rogadei e fatti inediti. Non sappiamo niente di insurrezioni, ribellioni, arresti. Si dovrebbe indagare anche il periodo borbonico tra i due momenti rivoluzionari 1820/21 e il 1848. Manca una maggiore localizzazione degli eventi. Anche la ricerca della vendita dei suoli demaniali, che non ho terminata. Andrebbero approfonditi gli anni che precedono la Prima guerra mondiale.
Anche il Ventennio fascista deve essere indagato ancora. Non sono state fatte perché sono ricerche più gravose e poi non si ha la sicurezza di trarne quello che si vuole per poterne fare un saggio. Non si ha certezza di arrivare a un risultato sicuro, determinante. Bisognerebbe studiare gli anni successivi al podestà Giovanni Tescione, cosa è successo in provincia. È il periodo in cui sorgono le banche, in cui si affermano i radicali. Quello dell’assistenza dell’ECA [Enti comunali di assistenza] dopo la Seconda guerra mondiale, uno spaccato per capire anche i livelli di povertà che esistevano a Caserta in quel periodo. La situazione delle case, la gente come viveva. Tutta la storia amministrativa del comune di Caserta dal secondo dopo guerra. Capire i meccanismi con cui si amministrava la città».

Quale storico locale ha apprezzato?
«Carmine Cimmino sicuramente, Aldo Di Biasio che ha studiato moltissimo Terra di Lavoro, un altro che si distingue molto è Felicio Corvese. Sono stato contento di Paolo De Marco, anche se napoletano, perché ha realizzato una bella sintesi sull’età giolittiana in Terra di Lavoro in cui abbraccia tutto il sistema politico di Giolitti, l’evoluzione del partito socialista. Anche Lucia Giorgi è una studiosa seria, conosco solo lei come storica donna, e la stimo».

Quali sono i pregi e i difetti degli storici casertani?
«Non li conosco tutti, anzi ne conosco pochi. Mi è sempre dispiaciuto di non vedere giovani impegnati nella ricerca storica. Anzi è un fatto lodevole che voi del Centro Studi della Provincia di Caserta stiate cercando di mettere su un centro di studi storici. Avrei potuto ancora lavorare ma gli occhi non me lo consentono più. Ad un certo punto c’è bisogno della sostituzione, che arrivino altre forze. Caserta è una delle province in cui la ricostruzione storica delle sue vicende è la meno realizzata rispetto alle altre province. Perché? Salerno, per esempio, ha avuto la sua facoltà di lettere, e quindi di storia. Qui, invece, c’è una facoltà in cui non si fa la storia del territorio. È tutta gente che viene da fuori Caserta e vi trova il posto libero senza vivere il territorio e la sua storia. L’ente comunale, poi, dovrebbe promuovere la cultura».

Cosa pensa di Caserta e della sua provincia? Che prospettive hanno?
«Penso che tutto dipende da noi cittadini ma anche da chi governa la città. La cultura qui non riceve nessuna attenzione e sovvenzione perché possa fruttificare. La realtà è piuttosto nera nel senso che le strade sono quelle che sono. La vivibilità è la prima cosa. La città avrebbe bisogno di una cura attenta e continua. Va amministrata in maniera coscienziosa, non per altri scopi. Caserta potrebbe risorgere solo con i fondi del Pnrr. Non ha un tribunale, ha una università “spezzatino”. Speriamo che si costruisca il policlinico. Per la provincia il discorso è molto più complesso perché la prima cosa importante è creare posti di lavoro per i giovani. È assurdo che si arrivi a una certa età e i giovani restino disoccupati reggendosi al reddito di cittadinanza. Con l’aumento dell’occupazione c’è un aumento della platea di chi spende. Bisogna spendere i fondi del Pnrr, però, con oculatezza, guai a fare come nel passato che non riuscivamo a spendere i finanziamenti europei perché le amministrazioni non erano capaci di mettere su carta i progetti. È l’unica speranza il Pnrr. Un’altra medaglia d’oro per la provincia di Caserta è la situazione dell’Archivio di Stato. E poi non esiste una televisione locale».

Cosa si aspetta dai nuovi storici e storiografi? Che consigli può dare?
«Creare un’istituzione culturale per poter progettare iniziative di carattere culturale attraverso convegni, seminari e giornate di studio. Far conoscere la storia di questa provincia, la storia di questa città alle persone. Spesso la storia della sua città e della sua provincia non la si conosce proprio. La creazione di questi istituti culturali privati dovrebbe servire ad invogliare, avvicinare i giovani alla storia. Credo che la scuola non faccia questo lavoro. La scuola ha un ruolo negativo nei confronti della diffusione della conoscenza storica. Ho avuto sempre questa impressione. La storia viene considerata come una materia di non particolare importanza. Non è necessario gettare l’anima per studiare la storia. Spero che la vostra iniziativa vada in porto, che si allarghi, che abbia poi un seguito anche con il supporto dell’Università con cui bisogna creare dei collegamenti».

Che progetti ha per il futuro?
«Venire ad ascoltare la vostra prossima conferenza. E poi faccio gli auguri a te e agli altri tuoi amici che possiate cominciare a pubblicare. È molto importante. Fare incontri per far circolare le idee storiche tra la popolazione e pubblicare per lasciare gli atti di quello che si è scoperto anche alle generazioni future. È un lavoro lodevole. È stata una scoperta conoscere che c’è un’iniziativa giovanile, come la vostra, di impegno storico».


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