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Masaniello e la morte di Giuseppe Carafa di Maddaloni

  • Storia

Un evento esplosivo, violento, rabbioso e sanguinario generato dall’esasperazione di un popolo vessato da condizioni inique e una tassazione esagerata e stringente. Era il 7 luglio 1647 quando in piazza Mercato a Napoli scoppia la rivolta del popolo napoletano contro il governo del viceré spagnolo, il duca d’Arcos, e le sue gabelle. A capeggiarla è un popolano, un pescivendolo, di nome Tommaso Aniello d’Amalfi detto “Masaniello” che guida i rivoltosi al grido “Viva o ‘Re de Spagna, mora o malgoverno”.
In realtà dietro Masaniello c’è la vera mente della protesta, l’avvocato salernitano Giulio Genoino che cerca di far collimare la rivolta contro le gabelle all’esigenze di ascesa del ceto popolare nel governo della città. La reazione del viceré è decisa: vuole stroncare sul nascere il moto popolare eliminando per primo il capo, Masaniello. La scelta degli uomini migliori a questo compito cade su due nobili fratelli, appartenenti ad un casato fedele e importante: il duca di Maddaloni Diomede e suo fratello Giuseppe. Avranno loro il compito di uccidere Masaniello. L’operazione però fallisce e a rimanere ucciso è Don Giuseppe e la sua fine è ben rappresentata da un quadro del tempo. È il 10 luglio 1647.

I protagonisti
Chi sono i fratelli Diomede e Giuseppe Carafa, signori di Maddaloni? Figli del duca Marzio II e di Maria di Capua Pacecco y Zuniga, i due fratelli incarnano sicuramente i costumi e gli usi della nobiltà seicentesca napoletana. Altezzosi, sicuri, disprezzavano il popolo e, soprattutto Diomede, non si faceva scrupoli a vessarli con imposte e soprusi. Molto spesso le loro azioni andavano ben oltre ciò che era la legalità dell’epoca. Dalle cronache del tempo infatti emerge che Diomede, chiamato il duca mustaccio, per via dei grandi e fieri baffi, si vantava di atti criminosi e di omicidi. Tant’è vero che, come scrive Giacinto De Sivo, viaggiava sempre in compagnia di uomini fedelissimi per protezione e che «incolpato di proteggere banditi e d’altri delitti contro il popolo fu per ordine sostenuto in S. Elmo».
L’accusa principale che il viceré mosse a Diomede fu quella di aver provocato l’esplosione della polveriera del galeone ammiraglio che trasportava truppe e munizioni per cacciare i francesi da Portolongone. Azioni simili era imputate anche a Giuseppe che infatti scampò al carcere di Sant’Elmo, ma venne obbligato al confino in Benevento. A salvare dalle proprie colpe i due fratelli intervenne proprio la rivolta di Masaniello.

Presunto ritratto di Masaniello nelle vesti di capitano generale - Dipinto di Micco Spadaro, 1647

Le prime trattative e il piano terroristico
Diomede e Giuseppe dovevano, per ordine del duca d’Arcos, porre fine alla rivolta. Il duca mustaccio fece intendere al viceré di conoscere molti dei rivoltosi ed in effetti si recò in piazza Mercato per parlamentare già nella mattina dell’8 luglio. Le richieste dei rivoltosi, di Masaniello e di Genoino erano molto semplici: l’eliminazione delle gabelle e il rispetto dell’antico privilegio di Carlo V che concedeva al popolo napoletano la stessa rappresentanza dei nobili. Diomede promise di consegnare il documento il giorno successivo. All’atto della consegna però Genoino si accorse che il privilegio consegnato altro non era che un falso. Masaniello allora attizzò la folla e, stando sempre al De Sivo, si scagliò sul duca trascinandolo in terra per i capelli e colpendolo più volte. Diomede riuscì a fuggire anche grazie all’aiuto del maddalonese Giuseppe Apperti.
Per Masaniello, Diomede Carafa ormai rappresentava il più pericoloso nemico della rivoluzione. Un astio che nacque in verità qualche anno prima quando Masaniello si era recato al palazzo del duca per vendergli del pesce. In quell’occasione il futuro capopopolo venne assalito e percosso dagli sgherri del duca e mandato a casa senza essere pagato. L’appellativo di “nemico del popolo napoletano” venne ulteriormente confermato la mattina del 10 luglio. Un uomo del duca, il noto bandito Domenico Perrone, a capo di un gruppo di circa 300 compagni, ordinò di sparare delle archibugiate all’indirizzo di Masaniello all’interno della chiesa del Carmine. Nessuno dei colpi prese il capopopolo. Dopo l’uccisione di Domenico Perrone, un altro bandito per aver salva la vita decise di rilevare a Masaniello non solo che l’ordine di ucciderlo era giunto direttamente dal duca di Maddaloni, ma anche che il mustaccio aveva ordinato di sistemare barili di polvere da sparo tra le cloache di piazza Mercato in modo da far saltare in aria i rivoltosi e i loro capi. Inoltre raccontò che il duca aveva intenzione anche di avvelenare alcune fontane della città. Da quel momento in poi si aprì la caccia ai Carafa.

La morte di Giuseppe Carafa
Diomede, dopo il brutto scontro avuto con Masaniello, riuscì a lasciare Napoli mentre i rivoltosi saccheggiavano il suo palazzo di Posillipo ed il capopopolo faceva sfregio dei suoi ritratti promettendo di scorticargli la carne dalle ossa. In città però era rimasto il fratello di Diomede, Giuseppe, che collaborava con il viceré per tentare di sedare il movimento rivoltoso. La notizia raggiunse in poco tempo Masaniello e i suoi uomini. Nella serata di quel 10 luglio, il fratello del duca era stato visto in compagnia del Priore della Roccella mentre, con alcuni armati, si recava presso la chiesa di Santa Maria la Nova dei Frati Minori. Raggiunti dai rivoltosi intorno alle 22, Giuseppe e il Priore si diedero alla fuga e trovarono dapprima ricovero presso il monastero della chiesa di Santa Maria la Nova grazie al frate Giovanni di Napoli.
Giuseppe scrisse allora un biglietto indirizzato al viceré per chiedere aiuto. Il pizzino venne affidato ad un frate che però, dopo aver lasciato il convento, venne scoperto e picchiato. In poco tempo i rivoltosi circondarono il convento e minacciarono di darlo alle fiamme. Per questo motivo Giuseppe, indossato un saio, decise di abbandonare la struttura attraverso una finestra. Nel frattempo la folla era entrata in convento ed aveva decapitato sul posto due uomini del fratello del duca. Giuseppe riuscì a trovare rifugio all’interno di una bottega dove si creavano tessuti di seta promettendo alla proprietaria un’importante ricompensa per aver salva la vita. La folla inferocita passò poco dopo proprio nei pressi della bottega e la donna, forse per la paura (Aldimari) o per cattiveria (De Sivo), richiamò l’attenzione dei rivoltosi gridando «Qui dovete cercare. Qui è la preda ch’andate cercando».
Giuseppe vistosi ormai scoperto si levò dinanzi alla folla con gran dignità. Trascinato in piazza del Cerriglio, Michele De Santis, un macellaio, gli tagliò la testa. Il corpo di don Giuseppe venne smembrato: secondo certe fonti, alcuni popolani si scagliarono sul cadavere per prenderlo a morsi. Il tronco venne abbandonato in Rua Catalana, mentre la testa venne infilata su una picca con in basso una gamba con un piede. Appesa all’asta campeggiava una scritta «Questo è Don Peppe Carafa ribelle della patria e traditore del fedelissimo popolo». In questo modo venne portato al cospetto di Masaniello il quale davanti ad una folla inferocita tra offese e ingiurie gli strappò i baffi. Di questo episodio di incredibile crudeltà e violenza ci è rimasto anche un dipinto, da noi riproposto, del pittore napoletano Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro che raffigura proprio il momento in cui la testa di Giuseppe Carafa viene portata in trionfo a Masaniello.

Epilogo
Di lì a qualche giorno anche Masaniello doveva trovare la morte. La rivolta innescatasi a Napoli in poco tempo sconvolse tutto il napoletano e il casertano dove la lotta assunse elementi antifeudali. In poco tempo però i nobili riuscirono a ricontrollare i propri territorio; tra questi ovviamente anche Diomede Carafa. A Maddaloni il nome di Giuseppe Carafa lo si collega inevitabilmente ai fatti della rivolta di Masaniello. In realtà Giuseppe, forse più aperto mentalmente rispetto al fratello, riuscì ad associare il suo nome a quello di Maddaloni per qualcosa di molto più importante e pacifico. Fu lui infatti a volere la costruzione del mulino nella odierna zona di via Ponte Carolino proprio per agevolare l’attività agricola del territorio. Alla fine forse Giuseppe pagò per colpe non propriamente sue finendo suo malgrado travolto da un’ondata di violenza di massa che sconquassò il viceregno napoletano.

Bibliografia
  • BIAGIO ALDIMARI, Historia Genealogica della Famiglia Carafa, vol. II, Napoli 1691;
  • GIACINTO DE SIVO, Storia di Galazia Campana e Maddaloni, Maddaloni 1986;
  • AA.VV., I Carafa di Maddaloni e la feudalità napoletana nel Mezzogiorno Spagnolo, Caserta 2013;
  • AURELIO MUSI, Le vie della modernità, Città di Castello 2015.

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