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Unità si, Risorgimento no

  • Storia

In occasione della Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera, occorre fare qualche breve riflessione soprattutto perché la legge n. 222/2012 l’ha istituita definitivamente «allo scopo di ricordare e promuovere, nell’ambito di una didattica diffusa, i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e di consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica».

C’è stata una via alternativa all’unificazione italiana rispetto alla via Sabauda e liberale?

Nell’Ottocento l’auspicio e la necessità storica che l’Italia diventasse una nazione unita erano sentiti anche nel mondo conservatore. È esistito, infatti, un progetto alternativo di integrazione degli Stati italiani, nato in seno al mondo cattolico dove si era affermata un’analisi della questione dell’unificazione nazionale negli stessi anni, tra l’altro, della elaborazione del progetto mazziniano.

In realtà, già il re delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone (1810-1859), nel 1832 aveva proposto un programma di confederazione degli Stati italiani al re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, che diede una risposta vaga, e al papa Gregorio XVI che lasciò cadere la proposta in quanto riteneva che i tempi fossero prematuri. È un fatto, quindi, che Ferdinando II sia stato il primo sovrano a proporre un’unione politica fra gli Stati italiani.

In ambito cattolico si era sviluppato un ampio dibattito, promosso soprattutto da Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo e Antonio Rosmini Serbati. In particolare, Gioberti nel 1843 per primo presentò un progetto organico con il suo libro Del Primato morale e civile degli italiani in cui sosteneva come l’Italia fosse una per storia e per cultura nella religione cattolica. La religione e la civiltà cattoliche erano gli elementi fondanti ed essenziali dell’identità italiana e rappresentavano, perciò, la premessa naturale di una confederazione dei sovrani italiani. L’unità politica doveva partire dall’unità religiosa e dall’unita culturale, quindi per via naturale.

Papa Pio IX, che aveva accettato lo spirito del progetto di Gioberti, innescò una corrente di pensiero che sarebbe diventata maggioritaria e che poneva la Chiesa e i sovrani italiani a capo del movimento di unificazione nazionale. Si poteva intravedere ottimisticamente la possibilità di un esito cattolico e conservatore della questione dell’unità italiana.

Una unione che rispettasse le tradizioni e le peculiarità delle diverse parti del Paese, da costituirsi con gradualità e partendo anche da una unione doganale, senza guerre sovvertitrici. La confederazione avrebbe raggiunto lo scopo di ottenere l’indipendenza dallo straniero nelle forme possibili storicamente e una unità politica in grado di far rispettare l’Italia nel consesso internazionale, senza ledere i diritti di alcuno Stato. Il mondo laicista, tuttavia, definì questo piano come «neoguelfo», con intento palesemente dispregiativo in quanto cattolico.

Il papa e il governo granducale di Toscana dal 1847 si attivarono, coinvolgendo anche il Regno delle Due Sicilie e il Regno di Sardegna, per la costituzione di una unione doganale che spianasse la strada a una Dieta nazionale per discutere dei termini di una confederazione. Vi aderirono poi anche il duca di Modena e il duca di Parma. Gran parte del progetto «neoguelfo» si era impostato in modo favorevole e i principi italiani erano bendisposti a questo scenario.
Alla fine del 1848 si volle trasformare la Lega doganale in una Lega politica, ma i rivoluzionari radicali e liberali non accettarono la via cattolica all’unità italiana. Provocarono, anzi, una guerra fratricida in Sicilia e una rivolta a Napoli con l’intenzione di istituire una repubblica. In effetti, l’elemento radicale del Risorgimento aveva boicottato la Prima guerra d’indipendenza perché non accettava una confederazione sul modello conservatore.

La proposta del pontefice, tuttavia, elaborata dal Rosmini, iniziava nel seguente modo: “Trattato per la Lega italiana proposta da Pio IX, versione redatta da Rosmini”

In nome della Santa ed indivisa Trinità ….. Sin da quando i governi di Roma, Torino, Firenze, Napoli formarono la Lega doganale, fu loro pensiero di addivenire ad una Lega politica, che fosse come il nucleo cooperativo della nazionalità italiana, e potesse dare all’Italia quell’unità di forza che è necessaria alla difesa interna ed esterna, ed allo sviluppo regolare e progressivo della prosperità nazionale.

Tutti sapevano, quindi, chi era stato il promotore di questo progetto confederato in cui ogni Stato italiano, indipendentemente dalla popolazione e dalla grandezza, avrebbe mandato 3 rappresentanti a Roma, quindi numero uguale per Napoli o Parma per esempio.

La sconfitta militare sabauda di Novara, tuttavia, e il fallimento di una intesa politico-militare federale provocarono la fine del progetto neoguelfo. E fu così che l’elemento radicale repubblicano poté avere campo libero, essendo molto più interessato alla rivoluzione.

La partecipazione del mondo cattolico agli eventi risorgimentali, dei quali per oltre un decennio era stato protagonista a vario titolo, terminò con l’esperienza della Repubblica Romana con i suoi effetti anticlericali e rivoluzionari. E la conclusione della prima guerra austro-piemontese con altrettante implicazioni rivoluzionarie aprì la strada alla terza via all’Unità.

Questa fu la modalità che sarebbe potuta avvenire, ma che non avvenne perché l’elemento radicale la impedì a costo, addirittura, di favorire l’Austria.

Anche i Bersaglieri Piemontesi votano al Plebiscito (Archivio di Stato di Caserta)
Schede elettorali del Plebiscito del 21 ottobre 1861 (Archivio di Stato di Caserta)

Che cosa è stato il Plebiscito?

Il 21 ottobre 1860 si svolse a Napoli e nel Regno un plebiscito con il quale gli invasori cercavano di legittimare la loro presenza e di fornire una base legale e una giustificazione politica all’intervento delle truppe piemontesi. Il quesito era «Il Popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale, e suoi legittimi discendenti?». Le operazioni elettorali, tuttavia, si svolsero senza nessuna garanzia di libertà di espressione, e lo scrutinio fu quasi dappertutto falsificato. Si trattò, infatti, di un plebiscito in cui l’unanimità dei consensi e la falsificazione dei risultati furono assicurati da tre fattori determinanti:

  1. Innanzitutto dalla pubblicità del voto: il voto fu pubblico e non segreto. Furono chiamati alle urne tutti i cittadini maggiori di 21 anni e che godessero diritti civili e politici, tra l’altro soltanto in questa circostanza perché per tutte le votazioni che seguirono negli anni successivi si applicò il criterio del censo. In ciascun comune su un apposito banco furono predisposte tre urne, una vuota al centro e due laterali rispettivamente con le schede dei SI e con le schede dei NO da inserire nell’urna vuota.
  2. La presenza intimidatoria ai seggi delle Guardie nazionali – che erano il braccio armato della borghesia – e dei camorristi a Napoli.
  3. Le operazioni elettorali si svolsero senza nessuna corrispondenza tra iscritti nelle liste elettorali e votanti, perché ebbero accesso al voto anche moltissimi non aventi diritto, in quanto non erano cittadini del Regno delle Due Sicilie. Un caso emblematico è rappresentato dalla provincia di Terra di Lavoro, più importante del Regno e proprio dove si è compiuta l’Unità d’Italia e le guerre risorgimentali più importanti: battaglia del Volturno (2 ottobre), l’assedio di Capua (2 novembre) e l’assedio di Gaeta. Per riportare un solo esempio tra moltissimi, ebbero accesso al voto a Santa Maria Capua Vetere non solo l’intero Stato Maggiore piemontese della brigata guidata dal maggiore generale polacco de Milbitz della XVI Divisione, ma persino battaglioni di bersaglieri e di fanteria provenienti dal nord Italia.

Ad ogni modo, in provincia di Terra di Lavoro su 238 comuni soltanto in 89 si tennero le operazioni elettorali, cioè in quei comuni occupati dai Garibaldini e dai Piemontesi, e il risultato fu di 70.296 SI e 1328 NO. Negli altri comuni non si sarebbe mai votato. Si trattò, perciò, di soli 70.000 SI su una popolazione di 774.523 abitanti della provincia. Soltanto l’8,69%, quindi, decise le sorti di Terra di Lavoro, mentre la percentuale media dei SI delle province della Campania fu del 16,72% rispetto alla popolazione.

In tutte le province meridionali continentali, comunque, il dato dominante fu l’astensionismo, perché gli elettori rappresentarono soltanto il 25% della popolazione totale, e i SI soltanto il 18,15% della popolazione del Mezzogiorno continentale.

Si può parlare, perciò, di un bassissimo livello reale di consenso espresso nel plebiscito. Probabilmente andarono a votare soltanto i favorevoli all’annessione, mentre gli altri evidentemente non considerarono legittimo quel plebiscito ed attesero, invano, una vittoria delle truppe borboniche.

Si potrebbe concludere con la citazione «Chi di falso plebiscito ferisce, di falso plebiscito perisce». Ma questa è un’altra storia.

Bibliografia
  • N. RODOLICO, Un disegno di Lega italiano del 1833, in «Archivio Storico Italiano», vol. 93, anno 1935.
  • M. MONTESANO, Partiti politici e Plebiscito a Napoli e nelle province meridionali nel 1860, in Archivio Storico per le province napoletane, Napoli 1966.
  • F. BARRA, Il Brigantaggio in Campania, in Archivio Storico per le province napoletane, Napoli 1983.
  • ARCHIVIO DI STATO DI CASERTA, Prefettura, Gabinetto.

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