Il 13 febbraio del 1861, dall’alba alle 6 e mezzo di sera, tuonarono per l’ultima volta i cannoni della fortezza di Gaeta. Tacquero solo all’avvenuta firma, dopo una giornata di trattative, della capitolazione della piazza. Si poneva così termine ad un assedio durato dall’inizio di novembre. Un assedio che fino all’ultimo aveva richiesto un pesante tributo di sangue, ma che non aveva piegato la volontà dei bravi artiglieri che difendevano Gaeta:
“Erano stati 1613 i colpi sparati dalla piazza in questo giorno, e 7863 quelli partiti dall’attacco. Oltre ai 39 soldati rimasti morti sotto le ruine della saltata batteria di Transilvania, la guarnigione aveva avuti altri 12 soldati e 2 ufficiali uccisi, e 2 ufficiali e 25 soldati feriti. Pel tifo s’erano ammalati 38 e 4 ne erano morti. Dal canto nostro avevamo avuti 2 uccisi e 14 feriti”
Una storia di coraggio e di attaccamento al legittimo sovrano che era iniziata molto tempo prima, il 25 giugno 1860, la data del ripristino della Costituzione.
“Viva ‘o Rrè”, questa fu infatti la risposta dei soldati napoletani al “Viva la Costituzione” lanciato dall’ufficiale al comando, come ricordato nello sceneggiato “L’Alfiere”, dall’omonimo romanzo di Carlo Alianello, uno dei primi trasmessi dalla RAI.
Bei reggimenti, bene armati e ben addestrati. 8° Calabria, 9° Puglia, 10° Abruzzo, 14° Sannio, dragoni e cacciatori a piedi ed a cavallo con il piumetto sullo shakò, e lancieri con l’alta tchapska, il tipico elmo delle guerre napoleoniche. Soldati la cui storia e le cui tradizioni, a differenza di quelle di altri Stati preunitari, furono disperse e dimenticate dopo l’Unità, forse perché colpevoli di non essersi rapidamente schierati dalla parte del vincitore, come pure era nei piani di Cavour e come fecero molti comandanti della Real Marina.
Marinai e cannonieri, invece, quando Francesco II di Borbone lasciò Napoli per Gaeta a bordo del Messaggero, sola nave rimastagli fedele insieme alla fregata Partenope, si buttarono in acqua dalle unità maggiori, letteralmente “comperate” dagli emissari piemontesi, per raggiungere a nuoto i loro compagni a bordo della nave che trasportava “’o Rrè nuostro”.
E furono in tanti, oltre quarantamila, che nel settembre del 1860 si ritrovarono oltre il Volturno, e poi sul Garigliano ed a Gaeta, sempre più indietro, sempre più vicini ai confini del Regno, per difendere il loro sovrano e l’onore dell’esercito.
A decidere le sorti della guerra, pericolosamente in bilico dopo la mancata riuscita della controffensiva napoletana del 1° ottobre “dopo tale giornata, pendeva assai incerta la sorte delle armi sul Volturno”, era opportunamente venuta la marcia nel Napoletano del corpo di spedizione di re Vittorio Emanuele II di Savoia, che sotto il suo personale comando aveva varcato la frontiera del Tronto nel giorno 12 ottobre.
Dopo tante sconfitte senza combattere, come l’abbandono prima della Calabria e poi della stessa capitale a Garibaldi, che vi arrivò in treno e senza scorta da Salerno, e mezze vittorie regalate al nemico per abbandono di campo, come a Calatafimi ed a Milazzo, vi erano state anche due vittorie, a Caiazzo nel settembre ed a Pettoranello, il 17 ottobre, entrambe ottenute con un forte concorso popolare.
La prima ad opera dei battaglioni cacciatori della Divisione Colonna, appoggiati dai popolani al grido di “Viva Maria”, la seconda per merito del Maggiore Achille De Liguoro, barese, al comando del 5° battaglione Gendarmi Reali, e, principalmente, delle masse insorgenti di Macchiagodena, Castelpetroso, Pettoranello, Carpinone, di tutto il distretto di Isernia. Dall’altra parte, al comando del colonnello Francesco Nullo, il primo a scappare, dodici guide settentrionali, un battaglione di garibaldini siciliani e due di insorti locali. Un migliaio di volontari, in gran parte meridionali, che furono sbaragliati da un piccolo esercito di “cafoni”, come li chiamavano i galantuomini, armati di coraggio, vecchi schioppi ed arnesi da lavoro.
Guerra di liberazione “dalla tirannia borbonica”, secondo la retorica risorgimentale, ma anche guerra civile, quindi, tra gente di paesi e contrade vicine, e guerra ideologica, dove il male è tutto da una sola parte, e dei vinti va cancellata o spregiata anche la memoria, con luoghi comuni durati fino ai nostri giorni, come “Re Bomba” (ma anche Vittorio Emanuele fece bombardare Genova) e “l’esercito di Franceschiello”.
L’11 ottobre, ancora prima quindi dello svolgimento del referendum del 21 ottobre, la Camera del Parlamento sabaudo decretò l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, il 13 febbraio veniva firmata la capitolazione di Gaeta, il giorno dopo il re partiva in esilio per Roma con la corte e il suo governo.
Bibliografia
- FEDERICO CARANDINI, L’assedio di Gaeta 1860-1861, Torino 1875.
- GIOVANNI PEDE, Dal Volturno al Macerone. Nascita di un Regno. I quarantacinque giorni che fecero unita l’Italia, Isernia 2020.
Con questo articolo ha inizio la collaborazione dell’ing. Giovanni Pede con il Centro Studi della Provincia di Caserta.
Nato a Vinchiaturo (CB) e laureatosi in Ingegneria Meccanica alla Sapienza, ha lavorato per quasi quaranta anni in ambito industriale e nel campo della ricerca. Appassionato cultore della storia militare italiana, è autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche e di diversi saggi di storia. Per i tipi di Cosmo Iannone editore nel 2020 ha pubblicato il volume Dal Volturno al Macerone. Nascita di un Regno. I quarantacinque giorni che fecero unita l’Italia.
L’ultima battaglia di Francesco II di Borbone
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